La colonia di padulesi in Egitto.
Il 17 novembre 1869 fu inaugurato l’istmo di Suez, un canale artificiale navigabile che consentì di collegare Porto Said, sul mar Mediterraneo, a Suez, sul mar Rosso e che produsse forti mutamenti nella navigazione transoceanica negli anni a seguire. Ci vollero una decina d’anni per realizzare l’idea dell’ingegnere francese Ferdinand de Lesseps (Diplomatico in Egitto dal 1832 al 1838), che nel 1854 ottenne il permesso dal Viceré Mohammed-Said-Pascià per iniziare gli studi di fattibilità, dando il via ai lavori quattro anni dopo con un progetto realizzato dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli.

Fu una società creata e diretta dallo stesso Lesseps nel 1858, la “Compagnie universelle du canal maritime de Suez”, a ricercare i finanziamenti ed i lavoratori per la realizzazione dell’opera. Agli scavi del canale parteciparono più di un milione e mezzo di lavoratori, in gran parte egiziani, ma anche algerini, siriani e molti europei. Questi ultimi arrivarono in Egitto verso il 1864, dopo circa cinque anni dall’avvio dei lavori ed in concomitanza della forte riduzione dell’apporto di personale egiziano. In quel periodo furono introdotte anche nuove macchine per la costruzione dell’istmo, come le Gru, che richiesero l’utilizzo di personale maggiormente specializzato.
Richiamati dalla possibilità di guadagno, in quel periodo anche un folto gruppo di cittadini padulesi partì dai porti di Napoli, Ancona e Brindisi per raggiungere Alessandria d’Egitto o Porto Said.
Lavorarono in Egitto fino al 1873/74, sparsi tra Suez, Alessandria e Porto Said, dove furono impiegati principalmente come manovali, scalpellini e, forse, qualcuno anche come capomastro e responsabile di qualche cantiere. Fu sicuramente duro e faticoso per loro lasciare la famiglia, affrontare il viaggio e inserirsi in un contesto completamente nuovo rispetto a quello di appartenenza. Un ambiente dove anche gli animali e la conformazione geografica dei luoghi erano molto differenti da quelli a cui erano abituati in Italia e nel quale dovettero stare a stretto contatto con persone di varie nazionalità, con cui non fu facile capirsi come anche condividere le case e gli ambienti adibiti agli operai.
Ma il richiamo di un lavoro certo, che significava guadagno, emancipazione e crescita professionale, portò questi aspetti in secondo piano e, fin dal 1865, spinse non pochi padulesi a partire verso l’Egitto. Tra loro soprattutto scalpellini e piccoli artigiani della pietra, ma anche stuccatori, braccianti e contadini, perlopiù giovani tra i trenta e i quarant’anni che, sicuramente, si aspettavano di migliorare le proprie condizioni di vita a seguito di quell’esperienza.
Le prime conseguenze della nuova convivenza.
Purtroppo, però, già dai primi giorni i padulesi sbarcati in Egitto dovettero fare i conti con il sovraffollamento delle città e ciò, di conseguenza, determinò non pochi problemi nelle condizioni di vita e di convivenza con tante migliaia di persone. Tra le conseguenze peggiori si rilevano le pessime condizioni igieniche in cui vivevano molti operai, che nel tempo sfociarono in violente epidemie di colera.
Non è facile risalire al numero esatto dei morti, certo però è il fatto che non furono pochi gli operai che morirono sia a causa delle dure condizioni di vita che del colera. Tra questi Giovanni Ostuni, uno dei primi a partire da Padula e che morì a Suez il 26 febbraio 1865. Quel giorno al suo capezzale c’erano Luigi Lopez (originario di Napoli) e Corrado Di Salvator Leone (originario di Catania), che all’epoca lavoravano in quella città e condividevano l’alloggio con il padulese defunto. Il primo faceva lo <<scritturale>> e lavorava scrivendo lettere per i tanti operai italiani che ancora non sapevano usare carta e penna, mentre l’altro era un <<indoratore>> che lavorava per la “Compagnie universelle du canal maritime de Suez”.
I due uomini, testimoni del decesso di Giovanni Ostuni, sottoscrissero il verbale di morte che fu redatto dal sacerdote della Chiesa Cattolica di Suez, poi trasmesso al Consolato Imperiale di Francia con sede a Suez e al Console italiano che si trovava al Cairo. Il documento arrivò all’attenzione del sindaco di Padula esattamente il 3 gennaio 1866, dopo circa un anno dal decesso.
Negli anni successivi anche Michele Finamore, Michele Chiappardi, Carmine La Cava ed i figli dello scalpellino Michele Arcangelo Vincenzo Addobbato persero la vita in Egitto a causa delle varie epidemie di colera, che si susseguirono fino al 1874.
Michele Finamore era un giovane di 30 anni, che a Padula abitava alla strada Castello con la moglie Maria Valentina Timpaniello. Morì di colera a Porto Said il 30 giugno 1866, all’interno dei locali della <<Chiesa Cattolica>> presente in città dove fu assistito da Padre Erasmo, che gli fornì <<tutti i conforti religiosi, dalla confessione all’Olio Santo>> e lo fece seppellire nel cimitero che si trovava nelle vicinanze della Chiesa. Il verbale di sepoltura fu scritto in latino e la moglie di Michele dovette farlo trascrivere in italiano dall’avvocato Francesco Vecchio, nominato come perito dal Comune. Dalla trascrizione ci si accorse che Padre Erasmo, non avendo indicazioni utili al momento della morte di Michele, certificò che il defunto era di origini <<calabresi>>.
Il bracciante Michele Chiappardi, anche lui di circa 30 anni, morì nell’Ospedale della Compagnia Universale del Canale a Suez l’8 febbraio 1867, mentre Carmine La Cava, nativo di Sala Consilina e sposato a Padula con la contadina Concetta Arato, morì ad Alessandria d’Egitto il 14 ottobre 1872. Al suo capezzale quel giorno c’erano i padulesi Vincenzo Arato e Saverio Volpe, che qualche giorno dopo informarono dell’accaduto anche i loro concittadini Giovanni Rizzo e Angelo Brigante presenti ad Alessandria d’Egitto per lavoro.
Molto probabilmente anche i figli dello scalpellino Michele Arcangelo Vincenzo Addobbato morirono a causa di qualche epidemia. Michele, sposatosi a Padula con Teresa Pietrofesa, decise di trasferirsi a Suez con la consorte intorno al 1867/68. In quella città lavorò come tecnico, aveva l’incarico di supervisore dei lavori nel coordinare gli operai nel taglio della pietra. La sua posizione lavorativa era sicuramente migliore rispetto a quella di tanti operai, cosa che gli consentì di avere buoni contatti e migliori condizioni di vita. Con la moglie abitò in una casa che aveva fittato da un muratore originario di Cremona di nome Aschieri Aligario, il quale, a sua volta, l’aveva presa in fitto dall’egiziano Murad Effenda. Il 28 agosto 1871 in quella casa nacque Ferdinando, il primo figlio di Michele e Teresa, mentre nel mese di giugno 1873 nacque una bambina che chiamarono Clorinda Filomena Giovanna, ma i due bambini non vissero a lungo e morirono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: Ferdinando il 27 luglio 1873 e Clorinda il 12 agosto dello stesso anno. Morirono negli appartamenti del Vescovo di Alessandria, dove in quel periodo si trovavano Michele e Teresa per far curare i bambini malati. Fu il Vice Console Italiano a Suez, Ferdinando de Goyzueta, a redigere gli atti di morte dei due bambini e ad inviarli a Roma, da dove furono trasmessi a Padula per la trascrizione sui registri dello Stato Civile.
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© Miguel Enrique Sormani – 2018